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Il culto della Santa Muerte 

Ci troviamo in Messico, dove la festività dei morti, che va dal 28ottobre al 2 novembre, viene celebrata ormai da secoli. La commemorazione dei defunti è una tradizione le cui origini si perdono nella notte dei tempi. Una cerimonia che unisce paesi lontani con rituali spesso simili. Dalla festosa celebrazione messicana, alla spaventevole notte di Halloween americana, fino alle commemorazioni, cristiane e pagane della nostra Penisola. Però solo in Messico troviamo uno dei culti più discussi : stiamo per riscoprire il culto alla Santa Muerte.

MARIA VASSILEVA

Immaginate di trovarvi in un luogo sacro, in un santuario dove tutto ciò che vi circonda suggerisce una forte presenza ultraterrena, amata, venerata e temuta, alla quale si offrono doni, si fanno richieste di varia natura, per buon lavoro, di avere salute, di guadagnare soldi e prosperità e le si dedicano preghiere e offerte in cambio di protezione. Qui la Santain questione non ha niente a che vedere con quelle cristiane e non ci troviamo in una chiesa ma nel santuario di Sant’Ana Chupitiro, in un piccolo villaggio nelle vicinanze di Patzcuarò, Messico: qui la devozione è rivolta alla “Santa Muerte”. Chiamata anche  la  Niña Blanca,la Protectora,la Madrecita, La señora fautrice di miracoli.
Ci troviamo in Messico, nello stato del Michoacàn, questa zona agricola, situata tra grandi montagne e laghi e che è stata segnata dalla infaticabile opera di evangelizzazione dei missionari francescani, agostiniani e di altri ordini religiosi cosa che, alleata col temperamento ‘forte’ dei suoi abitanti, avvezzi all’inclemenza del clima, alla fatica e a causa della relativa lontananza dalle grandi città, aveva dato vita a una delle regioni più fortemente cattoliche del Messico e forse dell’America Latina. Il Bajío – cioè l’insieme formato dagli Stati di Jalisco, Aguas Calientes, Guanajuato, Querétaroy e Michoacán – è la zona che più martiri ha dato alla Chiesa Cattolica nell’America del secolo XX e rimane ancor oggi un vivaio di vocazioni religiose.
A Sant’Ana vi è un continuo flusso di persone, di intere famiglie che pregano davanti alla Santissima Muerte, si ha  l’impressione  che questa pratica stia assumendo uno spessore che molti non possono più negare. Il culto è diventata parte integrante dell’esistenza dei messicani. Perché se i defunti continuano ad intervenire nella memoria e negli atti dei sopravvissuti, vale dunque anche il contrario: i vivi non smettono di agire sui defunti, sui loro resti, sulle loro effigie:”  La Santa Muerte si manifesta, ti sta vicino , ti aiuta e ti ascolta, ma è anche vero che lei ha bisogno di te delle tue attenzioni e della tua venerazione, non bisogna mai deluderla perchè comunque vada lei ti è accanto”, ci disse una devota alla santa e pensare che ci siamo trovati in un luogo in cui la morte viene continuamente invocata, sfidata, corteggiata, dove devoti si chinano davanti a questa icone poste a confine di due mondi per poi accendersi una sigaretta in suo onore davanti ad un altare, donandole pensieri preghiere e richieste e dove la morte si nutre con lo spirito dei vivi, la loro Santa è la “ bella morte”, che nei sogni è una donna affascinante e, come monito, nella vita reale è uno scheletro che indossa una lunga veste nera e tiene una falce in mano: all’ingresso del santuario sono scritte queste parole: ”sabes de este dìa, tan importante, es cuando le permitì a mi hijo hacer mi casa de oracion, te invito a cuidarla y respetarla. Atte La mujer mas puntual”. La donna più puntuale, ma anche la donna che ti sta sempre accanto, nei momenti soprattutto più bui, la compagna che quando la invochi e le dai quel che ti chiede  non se ne andrà mai, ti sarà per sempre fedele. Molti hanno attribuito la crescita di questo fenomeno alle difficoltà che la società messicana sta attraversando, dai pericoli quotidiani con la criminalità e il narcotraffico alla crescente povertà del paese, poiché ogni società produce le sue risposte dalle contraddizioni radicali fra le misure secolari e sacrali dell’esistenza umana, fra uomo e la natura, fra la società e l’individuo, evidentemente questo culto è la risposta alle molte pressioni che la società messicana  è costretta a subire. A maggior ragione poiché il Messico appartiene alle cosiddette culture “continuanti”, cioè eredi delle civiltà “primarie” di antica origine, anche se oggi è nella fase di differenziazione dalla civiltà precedente, si è alla ricerca di una propria identità, di  un’essenza nazionale (si notano in ogni angolo del paese dei simbolismi nazionali proprio per indicarci la forte volontà di ricreare un’identità fortemente “ mexicana”) e di indipendenza dall’Occidente.
Lo  sdoppiamento culturale è la fonte di questa condizione: il messicano non è né europeo e né americano (del Nord), perciò sente una discrepanza interna, una certa mancanza. L’autenticità del Messico rimane ancora non scoperta ed è ridotta ora al principio indigeno, ora al principio europeo. E’ riposta nella parte meticcia della società messicana, in base ai popoli di origine nàhua [1]; quale fonte di cultura creativa e vivente. La parola ‘meticcio’ suggerisce la natura di sdoppiamento dell’identità sociale, e le componenti sono due: quella indigena (la cultura autoctona) e quella europea (la matrice spagnola) e senza tralasciare il fenomeno sincretico.
La parte più delicata del culto è l’associazione della   Niña Blanca al narcotraffico e in generale ai suoi seguaci. Prostitute, spacciatori, assassini e ladri: secondo la maggioranza dei fedeli cattolici sono queste persone a far parte del culto della Santa Muerte. Persone che non hanno trovato posto all’interno della religione intesa in modo classico. Ma loro si sentono solo uomini e donne che credono in un qualcosa di superiore, extra-terreno. Cosi capita che qualche forza spirituale continui la sua azione sotterranea e riemerga dalla memoria antica e abbia il sopravvento nel momento della comparsa nel momento della crisi,  come può essere accaduto nel caso del culto della Santa Morte. Così Il culto alla Santa Muerte altro non è che un culto antico nascostosi sotto le spoglie dell’iconografia europea per sopravvivere alle repressioni dei colonizzatori.
 I messicani aspirano a ‘ripensare’ il mondo e simultaneamente hanno paura di far saltare i capisaldi dell’esistenza radicata, perciò ammirano il mondo e lo contemplano in ogni sua manifestazione, buona o cattiva che sia. Celebrare il culto della morte significa contemplare l’origine della vita. Mentre per il cristiano, la morte è solo il passaggio dalla vita precaria terrena ad una vita eterna, per il meticcio/messicano la morte è la via alla rinascita del principio delle forze vitali. “Qui noi celebriamo la morte, perché aspiriamo alla vita. Vogliamo rinascere.” Questo è il messaggio che si percepisce qui al Santuario di Sant’Ana Chupitiro.



 DAYAK: I TAGLIATORI DI TESTE DEL BORNEO


Nell’immaginario comune gli aborigeni del Borneo, considerata la più grande delle isole del sud-est asiatico, vengono associati  da tempi remoti alla pratica cruenta dei “tagliatori di teste”. I Dayak ( o Daiachi) sono composti  di circa duecento etnie diverse ,ma si suddividono in sei  tribù principali: Klemantan, Penan e Kenyah (quelle a più antico insediamento); Keyan, Murut e Iban . I Dayak, attualmente, contano due milioni di individui; sono però minacciati di estinzione per la crescente deforestazione (industrializzazione) e per le politiche di migrazione forzata. L’antropologa italiana che maggiormente ha studiato questa popolazione è Tiziana Ciavardini, ricercatrice presso la facoltà di scienze sociali dipartimento di antropologia della Chinese University of Hong Kong. Ha vissuto per circa venti anni in Medio Oriente, Estremo Oriente e Sud East Asiatico dove ha svolto per anni ricerca presso un gruppo di Dayak nella zona indonesiana del Borneo Occidentale: i Kantù.

Tiaziana come nasce l’idea della tua ricerca presso queste popolazioni Dayak del Borneo?
L’idea di questa mia ricerca in Borneo nacque alla fine degli anni novanta quando ero residente a Singapore e proprio dopo una mia partecipazione quale spettatrice ad una conferenza sui tessuti del Borneo conobbi un missionario olandese il reverendo Father Jaques Maessen. In quel giorno cambiò definitivamente la mia vita e in qualche modo quella della mia famiglia. Dovevo realizzare una ricerca per una tesi di laurea e vista la mia permanenza nel sud est asiatico pensai che un argomento inedito fosse una trovata geniale per una ricerca. Invece non avevo fatto i conti con il fatto che seppur fosse stato vero che non esistevano materiali in lingua italiana ne esistevano molti in lingua inglese, francese ed olandese e quindi iniziai a leggere tutto ciò che poteva trattare delle popolazioni autoctone dell isola del borneo che vengono comunemente chiamate DAYAK. In realtà io non conoscevo bene il Borneo ma nella mia immaginazione questa immensa  isola era sempre stata associata all’idea di mistero e di avventura, soprattutto  attraverso i racconti avventurosi di Emilio Salgari che aveva creato il ‘mito’ dei tagliatori di teste. Il reverendo olandese mi disse che era ragionevole documentarsi in dettaglio circa la cultura e la religione di quelle popolazioni prima di raggiungere il Borneo, in quanto le etnie Dayak in tutto il Borneo erano circa duecento e alcune di loro presentavano svariate diversità. Dopo lunghe riflessioni e analisi decisi di realizzare una ricerca etnografica presso una determionata popolazione Dayak chiamata Kantù.  Scopo primario della ricerca era quello di prendere parte ad una speciale cerimonia chiamata Gawai ed analizzare i vari rituali in essa presenti attraverso una interpretaziona antropologica.
Quale è stata la motivazione che ti ha spinta ad occuparti proprio di questo gruppo Dayak?
La scelta del gruppo KANTÙ è stata per due motivi: il primo di carattere tecnico perchè per analizzare la festa del Gawai l’unico periodo possibile è quello che va dalla fine di maggio alla fine di giugno perchè coincide con la fine del raccolto, e il missionario mi mise in contatto con un traduttore che poteva portarmi presso questa popolazione.
L’altra di carattere antropologico in quanto su questa popolazione che vive all’interno della giungla del Borneo non aveva scritto ancora nessuno se non il Professor Michael Roger Dove che insegna all’università di Yale, da me poi contattato e che si è occupato delle varie fasi che il sistema agricolo comporta.
Dunque sarebbe stata ed è tutt’ora una ricerca inedita.
Chi sono i Kantù?   
Spesso il gruppo Kantù viene definito come uno dei tradizionali nemici degli Iban (oggi il più famoso e maggiore gruppo di Dayak per popolazione con circa 2 milioni di  persone). Alcuni antropologi hanno proposto che inizialmente Iban e Kantù  fossero un solo gruppo e successivamente durante una migrazione nel Sarawak, quelli rimasti nel Kalimantan (Borneo olandese) cambiassero nome in Kantù, ma anche in questo caso, ad oggi le informazioni sono troppo scarse per poterne dare una conferma.
Potresti introdurci in grandi linee le credenze religiose di questo popolo? Come nasce il culto della testa?
Non si può affrontare il tema della festa del gawai se non si ha una panoramica sulla religione dei gruppi Dayak. Anche per quanto riguarda la religione, non esiste purtroppo una ricerca etno-storico-religiosa che investa tutto il complesso mondo dei Dayak, e che esamini le forme specifiche nelle quali presso queste popolazioni prendono corpo i grandi temi mitologici e culturali comuni a tutte le popolazioni dell’Indonesia e della Malesia. La dimensione del divino presso i Dayak, e dunque i Kantù, si realizza in personaggi mitici che corrispondono vagamente all’ideologia occidentale monoteistica. Tutti i gruppi Dayak riconoscono una divinità principale della creazione che è formata da due parti a volte nominate separatamente o due distinte divinità. Di fondamentale importanza, è il principio di dualismo che struttura la concezione nativa del cosmo. Essa coinvolge l’unione dei due aspetti della divinità o delle due deità che rappresentano da una parte il mondo superiore, quello al di sopra del mondo umano, e dall'altra le acque primordiali terrestri identificate con il mondo sotterraneo. La rappresentazione di questa dualità si raggiunge anche attraverso l’associazione simbolica del mondo superiore con il mondo degli uccelli, generalmente con l’hornbill, ed il mondo inferiore con il serpente. Questa concezione dualista del cosmo è anche espressa nell’associazione del cielo con la forza vitale maschile, dunque la caccia alle teste, e quello della terra con la forza vitale femminile,  l’agricoltura. Il culto della testa ha un’intima relazione con la promozione della fertilità umana e con i raccolti abbondanti.

Qual è il significato della pratica  della “ caccia alle teste”?
 l culto antico tributato alla testa (sia nella forma del teschio sia nell'atto di "staccarla" dal corpo) pare fosse dovuto proprio alla sua forma di contenitore di tale "essenza umana". Per questo motivo alla testa sono collegate credenze e usanze del tutto particolari. Essa, nel corso della storia, è stata mangiata, tagliata, conservata, esposta, riverita, oltraggiata: un corpo senza testa o una testa senza corpo hanno avuto ed hanno una forte carica simbolica.
Tant'è che esiste una vera e propria storia della decapitazione nelle diverse civiltà, con numerose varianti. Portare una testa mozzata al villaggio garantiva non solo un grande prestigio, derivato dalla difficoltà dell'impresa, ma assumeva anche una forte carica simbolica: il trofeo era assunto simbolicamente a rappresentare le valenze "sacrali" dell'uomo. Sappiamo che presso i Dayak il taglio della testa del nemico ed il portarla al villaggio come trofeo, erano elementi vitali di un complesso di credenze pratiche riguardanti l’anima, la vita, la morte e la fertilità. Sebbene queste pratiche siano state proibite ed eliminate dalle potenze europee che occupavano i territori del Borneo, molti continuano a compiere questo tipo di rituali che richiedono l’uso di teschi e a mantenere l’idea della potenza della testa tagliata. Così come il maggior contributo maschile per un buon raccolto è la caccia delle teste che favorisce simbolicamente la fertilità, così il contributo femminile è individuabile sia nella pratica della coltivazione del riso, sia nella conoscenza dei semi. Sebbene l’uomo partecipi alle varie fasi della coltivazione del riso, l’agricoltura è soprattutto identificata con il mondo femminile: la crescita e la maturazione del riso sono associate alla gravidanza e all’anatomia femminile. I Dayak credono che il riso possegga un’anima come gli umani e che la sua fertilità dipenda dalla  condizione spirituale.
La festa del GAWAI è stato il tema centrale della ricerca , di cosa si tratta?
La ricerca ha osservato dettagliatamente la più importante celebrazione, composta da vari rituali, la celebrazione del ‘Gawai’ ovvero la festa di ringraziamento per la raccolta del riso. Nei due temi centrali, che ne fanno insieme una festa del prodotto agrario e una festa collettiva dei morti, il Gawai rivela quel nesso particolare che congiunge per una ragione interiore, psicologica e storica insieme, la religione della terra con la religione dei morti in una società di coltivatori.
Si nota che l’offerta durante il Gawai viene fatta in onore di Pulang Gana, dio dell’agricoltura, che si crede sia stato il primo essere umano. Pulang Gana è il Kuasa Tanah ovvero il guardiano della terra. Secondo la mitologia, originariamente Pulang Gana si sostentava solo mangiando del carbone, come i suoi spiriti antenati non umani. In seguito egli trovò la ‘colocasia esculenta’ (nome volgare taro: tubero simile alla patata) e cominciò a mangiarla. Solamente più tardi, in alcune versioni si parla di tre generazioni successive, il riso cominciò a crescere e ad essere mangiato, dunque Pulang Gana diventò il Rajah padi ovvero il ‘dio del riso’. L’offerta di ringraziamento per il raccolto del riso è fatta sia presso i Kantù che presso gli altri gruppi Dayak, in onore degli spiriti degli antenati, intesi qui come defunti, e si sa che la loro invocazione  è una costante delle feste del raccolto.
In conclusione, di quali altri argomenti ti sei occupata?
La mia ricerca, nel corso di diversi sopralluoghi nell’arco degli ultimi dodici anni, è stata ampliata. Non è piú solo il tema del Gawai ad essere stato analizzato, ma altri argomenti  quali lo sciamanismo, il simbolismo nascosto all’interno dei simboli negli Ikat (stoffe tessute e colorate a mano), la doppia sepoltura, le tecniche di coltivazione del riso, il sincretismo, la divinazione, le tecniche di coltivazione slash and burn, i cambiamenti dovuti alla globalizzazione. Ho svolto varie conferenze sia sul territorio nazionale che internazionale relative alle varie tematiche che presentano oggi queste popolazioni. A questa mia ricerca sono nate pubblicazioni, saggi accademici e non. In particolare recenti studi sono stati avviati per comprendere il ruolo ambiguo svolto dalle ONG le quali, con il fine di preservare la cultura e la tradizione stanno a mio avviso provocando una perdita di identità delle stesse popolazioni Dayak. Ecco uno dei temi in evidenza è proprio quello volto alla preservazione della cultura di queste popolazioni. Si sono creati in Borneo in particolare in Sarawak ma anche nel West Kalimantan delle associazioni volte anch’esse al mantenimento della cultura e a differenza di quello che è stato fatto fino ad oggi in cui erano gli studiosi gli antropologi gli etnografi a studiare ed a creare un background di questi gruppi. Oggi sono gli stessi Dayak che studiano se stessi facendo lavori ricostruzione storica attraverso le varie forme di storia orale ancora molto viva nei villaggi.
                             
MARI VASSILEVA




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